Bullismo e arti marziali digitali: così i ragazzi mandano al tappeto le aggressioni on line

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Il maestro Cod ha appena finito di
raccontare, in modo calmo ed analitico, la triste storia di Ryan Halligan, il
tredicenne americano che nel 2003 si tolse la vita dopo una serie di episodi di
bullismo subiti sia nel mondo fisico che in quello digitale. Una vicenda agghiacciante
a ripercorrerla nei dettagli, ma il sensei (maestro, in giapponese) non
tradisce emotività. «Che tecniche di attacco sono state usate contro Ryan?»,
chiede a un certo punto agli allievi, disposti a cerchio nel dojo, la sala di
studio. E loro, ragazzine e ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, concentrati e
precisi, rispondono in modo altrettanto posato: «tecnica della seduzione;
raccolta di informazioni; tecnica del disvelamento». Ma anche: «tecnica sociale
dell’esclusione; oppure, attacco indiretto». 
Benvenuti a lezione della prima arte
marziale digitale al mondo, inventata nel 2013 a Genova da quattro appassionati
di informatica e discipline orientali. Si chiama Zanshin Tech, dove il termine
giapponese zanshin si riferisce a una particolare condizione mentale di calma,
consapevolezza e vigilanza, la stessa dell’arciere che sta per scoccare la
freccia. Con la differenza che qua la si applica all’utente di fronte al pc
mentre sta per premere Invio.  

Bracciali
al posto delle cinture e indagini digitali  
Non a caso non ci sono cinture, ma
bracciali, che vanno dal bianco al nero, passando per una gamma di colori che
riprendono quelli dei fili dei cavi di rete. Le lezioni sono una volta a
settimana, per tutto un ciclo scolastico, e iniziano con l’enunciazione delle
regole del dojo. Tra queste, fondamentali, «non attaccare» e il «rispetto»,
anche dell’avversario. Non solo: «Ciò che si dice nel dojo resta nel dojo»,
ripetono sensei e allievi. Sì, perché c’è una parte teorica, di analisi di casi
che possono essere successi altrove ma anche a qualcuno dei presenti. E c’è una
parte pratica, davanti a pc e smartphone, dove i ragazzi imparano
progressivamente a difendersi digitalmente, che può significare tante cose: ad
esempio, saper risalire all’identità di qualcuno che ci sta importunando
online; tracciare una mail; geolocalizzare una foto; fare ricerche in rete su
fonti aperte, quella che in gergo si definisce Osint; sfruttare funzioni poco
note dei social; ma anche imparare a gestire quello che si pubblica di sé. 
«Il segreto per sapersi confrontare con
una aggressione digitale sta nel saper analizzare l’attacco e spezzarlo nelle
singole tecniche e, una volta riconosciute, applicare le contromosse», spiega
Claudio Canavese, maestro Cod, uno dei quattro cofondatori genovesi dello
Zanshin Tech, un passato di judo e di informatica alle spalle. Accanto a lui
sta sensei Stack, il maestro Stefano, anche lui appassionato di arti marziali
(soprattutto karate) e computer. «Imparare a difendersi da un attacco trovando dati
su qualcuno o qualcosa accende un’altra lampadina nei ragazzi: capiscono che
devono saper proteggere anche le proprie informazioni», interviene
Stefano. 
Un
esempio concreto  
Raccontano il caso di una loro allieva
di quattordici anni, che era stata contattata sui social network da un giovane
di sedici. La dinamica è spesso la seguente: approccio su Facebook, poi ci si
sposta su Whatsapp o un’app simile dove il corteggiamento va avanti. La
ragazzina, che era bracciale bianco, ci ha messo però dieci minuti a
ricostruire l’identità reale della persona che l’aveva avvicinata. Che non era
chi diceva di essere e di anni ne aveva venticinque. Appena lei gli ha fatto
intendere di conoscere il suo vero nome, il tipo si è dileguato.  
«Questo è un corso di coscienza
digitale, più che di conoscenza. Si tratta di saper riconoscere i segnali di
stalking, adescamento, cyberbullismo, anche quando colpiscono altri, e di
saperli fronteggiare», commenta Claudio. «Il tutto impostato come un’arte
marziale». 
Dojo
in tutta Italia  
La scuola non è solo a Genova. Un’altra
ha aperto a Pavia, con altri quattro maestri (e maestre), e una classe di circa
12 allievi. «Il primo anno insegniamo a identificare segnali di attacco e a
scegliere tecniche di difesa, dal secondo lavoreremo di più sulla prevenzione,
ad esempio su come separare la propria identità digitale da quella fisica»,
commenta Davide Gabrini, uno dei maestri di Pavia. Ma altri trenta sensei sono
in via di addestramento, l’interesse verso l’iniziativa è diffuso. E la ragione
è che, al di là dei tanti convegni su cyberbullismo e compagnia, qui ci si
concentra in modo pragmatico sulla formazione dei più giovani. 
L’importanza di imparare ad analizzare i
segnali di pericolo online è suffragata dalla letteratura scientifica del
settore. «Tutti gli studi che riguardano l’adescamento di minori su internet
hanno individuato alcune fasi tipiche dell’aggressione», spiega alla Stampa
Giovanni Ziccardi, professore di informatica giuridica e autore del libro
L’odio online. C’è il primo contatto, basato spesso sulla manipolazione e
l’inganno, che ovviamente online è più facile; c’è la fase volta a guadagnare
la fiducia e la confidenza del minore; quindi c’è la virata sul sessuale,
quando si inizia a spostare il discorso su tematiche di questo tipo; poi la
richiesta di un incontro, insieme all’analisi del territorio attorno alla
vittima, anche per calcolare il rischio; infine l’incontro vero e proprio, e
l’abuso. «Per questo è importante intervenire fin dall’inizio, sapendo che chi adesca
per prima cosa chiede e analizza molte informazioni sul bambino», commenta
Ziccardi. 
Quelle
immagini postate su internet sono un pericolo  
Adescamento via internet e sfruttamento
di immagini prodotte da se stessi sono due tra le tendenze in crescita, secondo
uno studio di fine 2015 commissionato dal Parlamento europeo su come combattere
gli abusi sessuali online perpetrati su minori. La crescente pratica dei
giovanissimi di diffondere proprie immagini (ovvero la foto o il video che la
ragazzina si fa da sola nella sua cameretta e che poi gira a qualcuno)
alimenta, dice il rapporto, i casi di estorsione sessuale. C’è chi – come la
Internet Watch Foundation – ha analizzato le immagini a sfondo erotico
autogenerate dai ragazzi e poi finite online: l’85 per cento di quelle che
ritraggono adolescenti di 15 anni o anche più giovani sono state fatte
attraverso la webcam del computer di casa, nella propria camera o in bagno. Il
che apre interrogativi sullo scarso controllo esercitato sui giovanissimi all’interno
delle mura domestica da parte dei genitori. Lo studio rileva anche una verità
scontata ma evidentemente non così ovvia per i nativi digitali: il 90 per cento
di queste immagini sono state copiate o riprese dal sito o servizio dove
originariamente erano state caricate e sono state diffuse altrove. Le femmine
sono quelle più a rischio: il 93 per cento di simili contenuti autoprodotti le
riguarda. «Tanti ignorano di essere già protagonisti di materiale pedo perché
lo autogenerano e condividono», commenta alla Stampa Mirta Da Pra Pocchiesa del
Gruppo Abele. «Per questo abbiamo abbassato l’età degli alunni cui andiamo a
fare formazione a scuola: dalla terza media siamo passati alla quinta
elementare». 
Quando si parla di minori, Rete e abusi
sessuali è molto difficile avere però dati precisi anche per la difficoltà a
definire e circoscrivere specifici fenomeni. In ogni caso occorre saper
distinguere fra le parti della Rete in cui si scambiano contenuti pedopornografici
e le attività di adescamento vere e proprie. Nel primo caso sono coinvolte
decine di migliaia di siti: 31mila URL secondo gli ultimi conteggi, la metà
hostate in Europa, e il 77 per cento distribuite su 5 domini: .com, .net, .ru,
.org, .info. E, contrariamente alla vulgata corrente che li immagina tutti
nascosti nel Dark Web, sono per la gran parte raggiungibili sul web in chiaro,
come riferito nel rapporto 2014 della Internet Watch Foundation. 
Nel secondo caso, quello
dell’adescamento, definito anche grooming online, il campo di battaglia sono i
social network. Oltre che le innumerevoli chat per teenager. «Ce ne sono
moltissime dove hai anche le funzioni video. Se provi a entrare in una di
quelle con un nickname come Alice2002, che riveli cioè sesso e giovane età,
vieni subito assaltato», scrive (via chat criptata) alla Stampa un hacker
“vigilante”, che nel tempo libero dà la caccia ai pedofili online con varie
tecniche, fingendosi anche una ragazzina. 
«I giovani entrano ed escono da tantissime
chat, partono spesso da giochi, scherzi, sperimentano, hanno l’idea di essere
da un’altra parte», commenta Yasmin Abo Loa della onlus Ecpat Italia, che da
anni combatte tutte le forme di sfruttamento sessuale dei minori. 
«Noi diciamo sempre che quanto accade
online è digitale, ma non è virtuale», ricorda sensei Cod poco prima che inizi
la lezione. «Fa comunque parte della realtà e può avere ripercussioni». E a
volte non basta spegnere il pc perché passi. A volte può servire
accenderlo. 
 

Last modified: 17 Settembre 2023